Bioeconomia e Guerra

Scritto da Giordano Mancini - GenitronSviluppo.com in Bioeconomia, News, Zoom

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Bioeconomia, guerra

Pubblicato il giorno 16 maggio 2014 - Nessun commento



   


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Nicholas Georgescu Roegen, nel suo “Programma Bioeconomico minimale” affrontava il tema della guerra nei seguenti termini:

“La produzione di tutti i mezzi bellici, non solo la guerra, dovrebbe essere completamente proibita. È assolutamente assurdo (e ipocrita) continuare a coltivare tabacco se per ammissione generale nessuno intende fumare. Le nazioni così sviluppate da essere le maggiori produttrici di armamenti dovrebbero riuscire senza difficoltà a raggiungere un accordo su questa proibizione se, come sostengono, hanno abbastanza saggezza da guidare il genere umano. L’arresto della produzione di tutti i mezzi bellici non solo eliminerebbe almeno le uccisioni di massa con armi sofisticate, ma renderebbe anche disponibili forze immensamente produttive senza far abbassare il tenore di vita nei paesi corrispondenti.”

A oltre 40 anni di distanza da queste parole, possiamo ben dire che la natura umana considera la guerra uno strumento utile alla difesa degli interessi nazionali. Di conseguenza le spese per gli armamenti sono tutt’altro che diminuite. Rimane però la possibilità di usare la bioeconomia e la sua ferrea logica nella lotta allo spreco per diminuire la quantità di “interessi da difendere”. Ovvero, se sprechiamo meno, sia nell’industria che nelle attività civili, avremo meno costi per la difesa. Il motivo per il quale l’Italia si è dotata di ben 2 porta aeromobili, quindi di una pur limitata capacità di “proiezione di potenza”, è per difendere anche lontano i nostri approvvigionamenti di energia, in particolare di petrolio.

Infatti, se possiamo sopportare per un certo periodo di fermare le nostre esportazioni, le quali comunque possono trovare vie alternative a quelle eventualmente bloccate, non possiamo permettere al flusso di petrolio che arriva ogni giorno di fermarsi più che qualche settimana. Il petrolio è vitale per l’occidente, specie per nazioni come l’Italia, che ha scelto a suo tempo di uscire dal nucleare e che ha anche un numero di autoveicoli privati e da trasporto fra i più alti del mondo. In media per produrre una caloria alimentare, ad esempio quella della pastasciutta, ce ne vogliono circa 10 fossili. Le nostre auto, furgoni e camion sono alimentati in gran parte a benzina e gasolio senza i quali saremmo bloccati, perduti. Più del 46% dell’energia che alimenta le nostre case e le nostre industrie viene prodotta bruciando combustibili fossili.

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Per questa ragione, assieme a tante altre nazioni, partecipammo ad una guerra poco ricordata e studiata, ma che in effetti fu la prima guerra mondiale per il petrolio. Si tratta della guerra che contrappose l’Iran all’Iraq fra il 1980 ed il 1988. Se vogliamo ridurre le spese per la difesa militare occorre che, senza pregiudizi ed ipocrisie, noi occidentali si prenda coscienza di quello che costa mantenere il nostro stile di vita. Certo a noi sembra di essere a posto. Ognuno di noi ritiene che, pagato il prezzo di acquisto della propria automobile, le tasse varie previste e poi la benzina, è “libero di viaggiare”. Sembra che non ci siano altri prezzi da pagare, vero? Invece non è così. Assieme alla benzina o al gasolio, facciamo anche un pieno di sangue per il nostro serbatoio. Per comprendere il concetto, basta conoscere, ad esempio, la storia delle operazioni “Nima” (aurora in iraniano), e Kerbala avvenute fra il 1982 ed il 1987 a nord della città irakena di Bassora, alle quali l’Italia ha partecipato in qualche modo.

Il contesto storico

Nel 1979 ci fu la rivoluzione khomeinista in Iran, che depose lo Shah Reza Pahalevi e rese possibile, per la prima volta nella storia moderna, l’applicazione della Sharia, la legge di Dio, sulla Terra. Tutti gli ufficiali dell’esercito, dell’aviazione e della marina iraniana che non riuscirono a lasciare il Paese, furono passati per le armi o imprigionati, perché in gran parte erano stati addestrati negli USA, il “grande Satana”. Nel 1980 il dittatore irakeno Saddam Hussein, illudendosi di ottenere una facile vittoria, attaccò l’Iran. Le truppe iraniane, malgrado le epurazioni e lo sfascio seguito alla rivoluzione, ressero all’urto, poi si riorganizzarono e contrattaccarono. Khomeini ne approfittò per rafforzare il suo consenso fra il popolo e per lanciare la Jihad, la guerra santa, dichiarando apertamente di volere abbattere, oltre che il baathista Saddam Hussein, anche le “corrotte monarchie sunnite” di tutta la penisola arabica e anche di liberare Gerusalemme dall’occupazione sionista (ovvero sterminare gli israeliani). A questo punto il mondo intero ebbe paura. In particolare la conquista da parte iraniana della penisola arabica e la chiusura dello stretto di Hormuz, avrebbero portato al l’appropriazione o al controllo diretto del 60% del petrolio mondiale da parte di un fanatico islamico.

All’ONU si deliberavano risoluzioni in serie apparentemente neutrali, dove si mettevano i due contendenti sullo stesso piano, creando un embargo per la vendita di armi. In realtà ci fu una mobilitazione generale a favore di Saddam Hussein, il quale iniziava a trovarsi in difficoltà sotto le “spallate” degli iraniani. Così l’unione sovietica incrementò le forniture di carri armati T64 e T72, lanciarazzi e di armi leggere per la fanteria. I francesi mandarono i loro migliori consiglieri militari e vendettero all’Iraq un centinaio di cacciabombardieri Mirage F1, missili Exocet, elicotteri Gazelle e semoventi antiaerei. Gli inglesi fornirono cannoni ed esplosivi. Il Canada consentì all’ing. Bull, ucciso poi misteriosamente nel 1990, di fornire l’assistenza all’Iraq per la costruzione di un supercannone. L’Occidente fornì anche dei precursori per la fabbricazione di gas venefici e la tecnologia necessaria all’uso militare. Gli USA diedero una montagna di soldi, assieme al Kuwait e agli altri stati della penisola arabica. In più fornirono all’Iraq preziose informazioni raccolte dai satelliti. Israele fornì intelligence sul campo e operazioni di sabotaggio.

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E l’Italia? All’epoca eravamo uno dei migliori produttori al mondo di mine antiuomo ed anticarro e quello fu il nostro contributo. Gli ordigni, forniti in gran quantità, furono prodotti dalla Misar e dalla Valsella, due aziende in provincia di Brescia che negli anni ’90 dovettero poi riconvertire la loro produzione proprio a causa del “successo” nel loro impiego in quella guerra. Grazie agli aiuti internazionali, gli iracheni si rafforzarono e allora gli iraniani cambiarono strategia concentrando tutti i loro sforzi contro le fortificazioni a nord di Bassora. Se fossero riusciti ad interrompere l’asse Bagdad – Bassora, avrebbero tagliato in due l’Iraq e sarebbero potuti dilagare con le loro colonne corazzate contro Israele attraverso la Giordania e contro l’Arabia Saudita attraverso il Kuwait.

La situazione si faceva davvero seria. Quella che avrebbe dovuto essere la spallata decisiva, che avrebbe aperto la strada verso gli obiettivi finali, fu chiamata dagli iraniani “Nima” (aurora), perché avrebbe rappresentato l’aurora di una nuova era per tutto il mondo. Furono ammassati lungo il tratto dello Shat El Arab più adatto allo sfondamento, perché facilmente guadabile, più di 500.000 fra soldati, pasdaran, truppe irregolari e Basiji, i volontari disposti all’estremo sacrificio, i suicidi. Questi ultimi erano gruppi di 300/400 persone, a volte tutti di uno stesso quartiere, spesso bambini di 12 anni, reclutati nelle scuole, e che andavano a morire con appesa al collo una chiave di plastica, la chiave che gli avrebbe aperto la porta del paradiso dei martiri. Assieme a loro gli uomini troppo vecchi per fare i militari. Vecchi e Bambini avevano sulla fronte la fascia rossa del martirio. Dall’altra parte i consiglieri francesi insegnarono agli iracheni come predisporre “un’area di annientamento”, una tecnica inventata da Erich von Falkenhayn, capo di stato maggiore tedesco nella prima guerra mondiale, allo scopo di dissanguare, mediante l’uso dell’artiglieria, l’esercito nemico. Tecnica terribile ed efficace che causò la morte di quasi un milione di soldati sulle colline della Somme. In pratica si trattava di creare un’area profonda circa 4 km e lunga circa 12 km, delimitata da profondi campi minati, dove far concentrare il nemico per annientarlo poi con cannoni, esplosivi e missili. Gli iraniani attaccarono, come previsto, attraversando un braccio dello Shat El Arab e travolsero rapidamente le resistenze irachene sull’altra sponda.

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Si trattava in realtà di una ritirata programmata. Il velo di truppe, armate solo con mitragliatrici, dopo una breve resistenza di facciata, indietreggiò defilandosi attraverso dei passaggi sinuosi predisposti nei campi minati profondi fino ad un km. Gli iraniani avanzarono baldanzosi per 4 km fino a che trovarono la barriera dei campi minati che delineavano l’area di annientamento. Pensando ancora di essere vittoriosi, per rafforzare la testa di ponte più di 300.000 soldati iraniani attraversarono lo Shat El Arab in modo da fortificare la sponda irachena appena occupata. Poi, allo scopo di aprirsi la strada verso gli obiettivi strategici, per aprire varchi nei campi minati, mandarono avanti i gruppi di Basiji. Immaginate centinaia e centinaia di bambini e vecchi mandati a saltare sulle mine sotto il fuoco delle mitragliatrici! Ma i campi minati erano profondissimi e le mine italiane efficacissime.

Intanto centinaia di cannoni, elicotteri ed aerei facevano a pezzi gli iraniani bloccati nell’area di annientamento. In alcuni punti i Basiji, sacrificandosi in massa, riuscirono quasi ad oltrepassare i campi minati, allora gli iracheni usarono i gas venefici eliminando ogni possibilità di sfondamento. I soldati iraniani avevano con se maschere antigas, ma nel caldo soffocante delle paludi del confine, la gomma e la plastica delle maschere si fondevano con la pelle della faccia, soffocando comunque chi indossava la protezione. Dopo alcuni giorni di massacro gli iraniani tentarono la ritirata, ma gli iracheni avevano piazzato due grandi generatori a monte e a valle dell’area di annientamento, così chi entrava in acqua moriva folgorato. Non si facevano prigionieri.

Gli iraniani tentarono altri poderosi attacchi, altre operazioni chiamate Kerbala, ma furono sempre respinti grazie alle nostre tecniche di guerra ed alle nostre armi moderne, che fornimmo in abbondanza agli iracheni. Poi la guerra finì con un numero ufficiale, certamente errato per difetto, di un milione e mezzo di morti. Una fontana da cui sgorga vernice rossa, “La fontana del sangue” fu eretta a Teheran in ricordo del sacrificio dei martiri. Ancora oggi i Basiji sono presenti nelle forze armate iraniane, sempre pronti al martirio. Hanno anche un ruolo in città come difensori dell’ortodossia islamica, inquadrati dai Pasdaran.

La situazione attuale

Oggi la situazione strategica nell’area è cambiata, ma quando mettiamo della benzina nel nostro serbatoio dovremmo essere coscienti di come abbiamo, forse anche legittimamente, difeso il nostro tenore di vita. E di come siamo ancora disposti a difenderlo: se dovesse scoppiare una nuova guerra contro l’Iran, le nostre truppe in Libano verranno usate certamente in chiave anti Hezbollah. Noi occidentali facciamo sempre così: facciamo finta di non sapere, di non capire e comunque ci consideriamo sempre nel giusto, sempre dalla parte dei buoni. Certo nella prima guerra mondiale per il petrolio i bambini a morire in quel modo orribile ce li ha mandati Khomeini, non noi. Giustamente noi difendiamo i nostri interessi. Però comunque nel nostro serbatoio entra sempre un po’ di sangue assieme alla benzina. Non dovremmo mai dimenticarcene, per assumere le nostre responsabilità e per valutare se non è il caso di rivedere il nostro stile di vita.

La Bioeconomia prevede scelte atte a ridurre gli sprechi e l’energia è la cosa che sprechiamo di più. Non è più logico investire per ridurre gli sprechi, ad esempio per portare efficienza energetica nel nostro dispendioso patrimonio di edifici pubblici e privati quasi tutti il classe “G” piuttosto che continuare ad acquistare armi per difendere gli sprechi stessi? Parliamo del 60/70% dell’energia che finisce dispersa in ogni nostro uso quotidiano, causando fra l’altro imponenti quanto inutili emissioni di CO2. Inoltre le attività di efficientamento energetico degli edifici genera moltissimi nuovi posti di lavoro e nel tempo si ripaga da se risparmiando sui costi delle bollette. Le armi invece costano moltissimo, vanno mantenute e diventano presto obsolete. Sarebbe quindi logico fare un programma di medio – lungo termine per spostare le risorse dalle armi alla lotta allo spreco. Sarebbe logico, come erano logiche le parole scritte da Nicholas Georgescu Roegen 30 anni fa, ma si vede che l’essere umano e la logica non vanno a braccetto.

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Informazioni sull'autore: Giordano Mancini - GenitronSviluppo.com

53 anni, marchigiano. Un passato nei cantieri per la costruzione di centrali nucleari e di piattaforme petrolifere, ha poi accumulato una notevole esperienza nei processi produttivi di vari settori aziendali, come consulente e formatore sui temi dell’ambiente e dell’organizzazione. Impegnato altresì in associazioni e movimenti, in particolare il Movimento della Decrescita Felice ed i Gruppi di Acquisto Solidale, da anni tenta di contaminare i due mondi, quello delle imprese e quello delle persone che vogliono il cambiamento. Nel 2011 progetta Ponti di Fiducia quale strumento di contatto, conoscenza e contaminazione fra utenti consapevoli e imprenditori etici. Considera la presa di coscienza e il cambiamento degli imprenditori e il miglioramento dell’efficienza dei movimenti di volontariato, una delle chiavi di volta del miglioramento della vita delle persone.

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