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Anche se sulla presenza di solo uno o due candidati alla scadenza di giugno prossimo in pochi si sentono di scommettere. In palio c’è la realizzazione del Deposito nazionale delle scorie nucleari, un obbligo nei confronti dell’Europa (ce ne sono trenta di cui una decina in costruzione) e nei confronti dei cittadini presenti e futuri. Nel deposito si concentreranno, per meglio controllarli, tutti i rifiuti radioattivi. In Italia sono già 90 mila metri cubi, sparsi da Nord a Sud, non solo nelle 23 installazioni nucleari (vecchie centrali, impianti di produzione del combustibile e impianti di ricerca), ma anche centinaia di altri siti.
Si utilizzano e si stoccano materiali radioattivi negli ospedali e nell’industria con i primi a fare la parte del leone: rappresentano già il 40% del totale e crescono di 500 metri cubi l’anno. Finora ogni tentativo di trovare una sistemazione è fallita: la materia è anche “politicamente radioattiva”. Ad aprile la Carta delle Aree Potenzialmente Idonee (Cnapi) sarà finalmente pubblicata, ma chi ha avuto modo di vederla racconta che è estremamente “ampia” quasi tutte le regioni sono coinvolte, nonostante i criteri siano molto dettagliati: escluse zone sismiche, con instabilità geologica o idrogeologica.
Il deposito dovrà essere lontano da falde acquifere, risorse naturali già sfruttate o di prevedibile sfruttamento (miniere e giacimenti di gas petrolio), da fiumi, dighe, almeno 10 chilometri dalle coste e non troppo vicino a centri abitati. Inoltre serve una distanza di almeno un chilometro da autostrade, statali, dalle ferrovie, deve essere sotto i 700 metri di altezza e lontano da pendenze con media maggiore del 10%. È bastato l’annuncio dell’esistenza della carta per far partire il fuoco di fila dei movimenti per il no.
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