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Parliamo con Jacopo Favara, classe ’77 che insieme ad altri professionisti e partner aziendali ha creato un giovane gruppo di lavoro che sta facendo ormai molta strada nella progettazione sostenibile, parliamo di greenArchitecture.
Daniel Casarin: Buongiorno Jacopo, raccontaci innanzitutto qualcosa su greenArchitecture.
Jacopo Favara: Abbiamo cominciato con il verde, progettando prima giardini per privati, poi parchi per enti pubblici; nel frattempo la formazione andava specializzandosi, nel mio caso con un dottorato di ricerca in tecnologia dell’architettura centrato sulla riqualificazione sostenibile dell’edilizia residenziale pubblica, e così il concetto di ”verde” si è ampliato.
In seguito, il mio interesse di ricerca, che prosegue in collaborazione con l’Università di Firenze, si è focalizzato sulle tecnologie per il risparmio energetico, per le addizioni funzionali, per i sistemi costruttivi low tech e low cost (tecnologie semplici e a basso costo), per l’architettura sostenibile in generale. Parallelamente ho portato avanti l’interesse per la certificazione energetica (dagli albori della direttiva europea che la istituì), che oggi si è evoluto nell’audit energetico, strumento non più di valutazione ex post, ma di indirizzo e di programmazione strategica ex ante.
L’audit energetico dovrebbe essere il primo elaborato da produrre a monte di qualsiasi progetto di riqualificazione o recupero del costruito: ha senso progettare il recupero di un edificio se i costi per il suo efficientamento sono inaffrontabili? L’ultimo settore che abbiamo aggredito è quello delle abitazioni a ”consumo quasi zero” (secondo la definizione della Direttiva Europea 2010/31/EU), campo nel quale l’Italia sconta un grave ritardo rispetto al resto d’Europa, pur avendo un enorme vantaggio climatico.
Daniel Casarin: Quanto è importante oggi per i professionisti come voi fare rete e quali sono gli effetti di un lavoro interdisciplinare su un progetto architettonico o paesaggistico?
Jacopo Favara: Più che importante direi che oggi fare rete è una necessità. Il progetto di architettura è ormai un processo molto complesso che richiede diverse specializzazioni; per la nostra generazione questo è normale, siamo stati abituati al lavoro di gruppo ed alla interdisciplinarità, molti di noi hanno fatto l’Erasmus e si sono confrontati con altri modi di pensare; personalmente credo che non sia possibile (oltre che interessante) lavorare in perfetta solitudine senza commettere gravi errori; purtroppo in architettura gli errori si vedono quando ”i buoi sono scappati” e questo non giova a chi investe energie e risorse nella qualità del progetto.
Daniel Casarin: Cosa significa sostenibilità ambientale per greenArchitecture?
Jacopo Favara: Il concetto di sostenibilità si fonda su tre aspetti, tra loro interrelati in modo imprescindibile:
- La sostenibilità ambientale, quella oggi ”di moda”, sintetizza i processi ed i metodi del fare architettura nel rispetto dell’ambiente naturale, come l’utilizzo di materiali riciclati o riciclabili, la progettazione energeticamente efficiente degli edifici, l’uso delle fonti rinnovabili, fino alla complessa analisi del ciclo vita dell’architettura, dalla produzione dei materiali necessari alla costruzione dell’opera fino alla sua dismissione;
- La sostenibilità sociale, che per l’architettura significa soprattutto il progettare opere che funzionino, che siano apprezzate dagli utenti, che siano confortevoli e diano benessere, che non diventino un ”peso” per la collettività perché poco utili o poco gestibili; a corollario c’è l’attenzione al genius loci, alle imprese produttive ed artigianali locali, alla creazione di un sistema con le realtà culturali e sociali del luogo in cui l’architettura si inserisce, affinché essa appartenga innanzitutto alla collettività cui è destinata e non risulti un corpo estraneo;
- Infine, molto importante e poco valutata, c’è la sostenibilità economica, ovvero la capacità della progettazione di definire soluzioni che siano proporzionate al portafogli del committente, non solo in fase di realizzazione, ma soprattutto in fase di gestione e manutenzione; questo è quello che intendiamo con ”low cost”, ovvero dare attenzione nelle scelte progettuali alla facilità di manutenzione, al contenimento dei consumi delle risorse (non solo energetiche, ma anche idriche, del suolo, dei materiali da costruzione), affinché ogni componente di un’opera d’architettura sia esteso al massimo della sua efficienza. Non credo che possa esistere una sostenibilità ambientale che non tenga conto della sostenibilità economica e non amo le soluzioni ”green” solo per ricchi: quante volte vediamo architetture ”perfette”, ma che sono costate tre quattro volte il prezzo corrente di mercato? Eccezion fatta per alcune opere di punta nei quali la spinta innovativa e di ricerca porta inevitabilmente a costi elevati, ritengo che anche un’architettura di qualità possa e debba stare nel mercato. Quello del basso costo senza scadimento della qualità è un obbiettivo complesso che richiede un surplus di progettazione che difficilmente possiamo farci ricompensare: è difficile far passare l’idea che per spendere molto di meno dopo, bisogna spendere poco di più prima…
Daniel Casarin: Possiamo dire che il vero cambiamento che sta avvenendo oggi, grazie anche alla quantità di immagini che vengono veicolate dai tanti media e che abbiamo a disposizione, è una nuova libertà di osservare e guardare quello che ci circonda. Questo spesso si ripercuote sul fatto che non è più rilevante chi abbia fatto il progetto, se uno studio o un professionista piuttosto di un altro. Come intende differenziarsi greenArchitecture da questo “melting pot” progettuale?
Jacopo Favara: Non abbiamo ambizioni da archistar né penso sia necessario ”differenziarsi” ad un livello superficiale e di immagine; ritengo occorra puntare alla sostanza delle scelte che si fanno; certo che il bello è importante, ma non condivido l’impostazione formalista di alcuni colleghi, penso piuttosto che l’estetica sia vitruvianamente legata alla funzionalità ed all’efficienza costruttiva: credo che un’architettura sia ”bella” quando propone un cambiamento di sostanza nel modo di vivere, nel modo di costruire, nel modo di relazionarsi con l’ambiente. Può mai un’architettura invivibile, inquinante e costosissima essere bella?
Daniel Casarin: In un intervista Renzo Piano affermò: “L’architettura è prevalentemente luogo pubblico, costruzione di città, luogo di civiltà e di incontro, quindi avamposto contro la barbarie. La curiosità e la radice umanistica sostengono e reggono il tutto, la città ma anche l’edificio.” Quali sono le vostre fonti d’ispirazione a cui periodicamente tornate oppure che vi capita di scoprire strada facendo?
Jacopo Favara: Certamente Renzo Piano ci ha insegnato molto, soprattutto le potenzialità espressive della tecnologia e dei sistemi costruttivi; Alvar Aalto la centralità dell’utente che utilizza lo spazio, il suo benessere psicofisico; Le Corbusier come fare bellezza con la luce del sole, che è gratuita; Carlo Scarpa per averci trasmesso il calore delle soluzioni artigianali e dei pezzi unici; Herzog & DeMeuron per averci fatto capire bene come tutti i materiali abbiano una ”vocazione” funzionale ed estetica; Andreas Kipar che anche il più brutto dei luoghi può avere una bellezza da scoprire, Richard Rogers, Thomas Herzog come antesignani della green architecture…
Poi un’ulteriore importantissima fonte di ispirazione, soprattutto per gli aspetti che oggi chiamiamo bioclimatici (orientamento, ventilazione naturale, ombreggiamento, inerzia termica, ecc.), ci viene dal ricchissimo patrimonio costruito del mediterraneo, e non solo dalle perle, ma anche dall’anonima e modesta edilizia diffusa che compone il tessuto storico delle nostre città.
Daniel Casarin: Tecnologia, efficienza energetica e bioclimatica stanno piegando davvero l’estetica e la ricerca architettonica?
Jacopo Favara: Direi che ”piegare” non è il verbo giusto per esprimere il concetto: la ricerca estetica oggi è alimentata dalla tecnologia, dall’efficienza energetica e dalla bioclimatica. Quello che si può dire è che oggi subiamo le soluzioni tecnologiche e quindi estetiche dei paesi che producono più architettura di qualità, ovvero i paesi nordeuropei; per questo a volte vediamo architetture ”bioclimatiche”, progettate per climi freddi, con serre solari ed infissi perfettamente sigillati, in luoghi dove l’estate è calda e umida e dove servirebbero soluzioni ”mediterranee” per proteggersi dal sole e favorire la ventilazione naturale o il raffrescamento. Anche la normativa della certificazione energetica è stata importata dal nordeuropa senza adattarla ai climi italiani, determinando il paradosso di edifici in classe A che, in inverno, non consumano perché la temperatura non scende mai sotto zero e, in estate, non si sa quanta energia spendano in climatizzazione perché la certificazione non ne rileva i consumi. Oggi l’architettura italiana è ancellare, non determina minimamente il dibattito e la ricerca internazionale; credo che noi architetti italiani dovremmo rimettere al centro le nostre peculiarità e costruire un nuovo modello di architettura per i climi caldi, che racchiuda le tre accezioni della sostenibilità di cui ho parlato prima.
Daniel Casarin: In che modo l’industria in questo percorso sta aiutando davvero il lavoro dell’architetto?
Jacopo Favara: Se parliamo dell’industria italiana dei componenti edilizi, pochino; manca di capacità di innovazione, fanno le stesse cose da vent’anni; si salvano alcuni settori, legati soprattutto al lusso ed alla moda. Ogni volta che in un progetto si ipotizza una qualche innovazione tecnologica è sempre una fatica trovare un interlocutore che possa ascoltarti e dialogare per definire un nuovo prodotto, non c’è interesse all’innovazione; spesso ci è capitato, anche in appalti pubblici, di ricorrere a piccoli artigiani ed a pezzi unici, ma con costi elevati e senza possibilità di ”riciclare” l’idea.
Se invece parliamo di ”industria delle costruzioni” allora proprio non so cosa sia… È un settore dove regna il dilettantismo e la spregiudicatezza: chiunque apre partita IVA e, senza neanche sapersi esprimere in italiano corrente, si autodefinisce impresa di costruzioni. Nell’ambito pubblico c’è necessariamente maggior serietà, ma la normativa sugli appalti è costruita per favorire le imprese meglio attrezzate dal punto di vista finanziario e più dotate di avvocati, piuttosto che di tecnici e bravi operai.
Daniel Casarin: Il mercato dell’architettura in Italia è debolissimo se pensiamo al resto del mondo e c’è chi afferma che aumentare il numero dei concorsi da parte delle amministrazioni aiuterebbe moltissimo i giovani. E’ davvero così?
Jacopo Favara: Personalmente sono uno dei giovani aiutato dai concorsi di architettura, avendo ottenuto incarichi pubblici ai quali altrimenti non avrei avuto accesso. Oggi un’errata interpretazione della normativa prevede che per fare, ad esempio, una scuola si debba averne fatte due o tre prima, probabilmente in una precedente vita, e che si debba fatturare come un’impresa con dieci dipendenti… è un’interpretazione assurda, che non trova riscontro in ambito europeo dove ci sono normative gemelle, e che attribuisce a pochi soggetti, rigorosamente anziani, il diritto a partecipare alle gare, escludendo tutti gli altri, la più affollata platea di architetti d’Europa. Tutto questo si basa su un assunto: che la qualità dell’architettura sia garantita da chi ha fatto più opere o da chi ha guadagnato di più in passato. Ritengo, come la stragrande maggioranza delle amministrazioni pubbliche europee, che la qualità dell’architettura possa essere raggiunta solo da una competizione, aperta a tutti, senza discriminazioni di esperienza o di censo, centrata sull’oggetto specifico della progettazione.
La competizione rende migliori anche i progettisti meno dotati perché spinge al massimo le potenzialità di ciascuno e porta al duplice beneficio di una crescita culturale ed intellettuale dei concorrenti e del miglior progetto possibile per l’ente appaltante. Inoltre, come ovvio, garantisce l’accesso alla professione dei giovani ed il ricambio generazionale e delle idee, contrastando uno dei mali italiani e non solo nell’architettura.
15 settembre 2012 alle 15:50
Come architetto mi imbatto fin troppo spesso con difficoltà quali una scarsa qualifica delle imprese, committenti che badano solo a prezzi e tempi, vincoli urbanistici ed edilizi legati a standards puramente teorici, completamente svincolati da qualsiasi criterio bioclimatico o di (vera) buona prassi, ecc.
Un caro amico, al riguardo, mi disse: “non ci dobbiamo arrendere, altrimenti il nostro diventa solo più un semplice lavoro”!!
Condivido appieno quanto riportato nell’intervista e mi auguro che in molti abbiano l’opportunità di leggere e riflettere sui contenuti; è necessario che tutti questi temi e concetti entrino a fare parte della cultura quotidiana, quella “spiccia”, di tutti i protagonisti dell’evento architettonico: progettisti, imprese, committenti.
Mi auguro che tutto questo diventi finalmente la normalità di un fare architettura per l’uomo e per il suo benessere.
grazie e buon lavoro!