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Repubblica
Uno: avete messo i doppi vetri alle finestre. Due: la vostra auto è una Euro6. Tre: quando andate al mare notate che la campagna è piena di file di pannelli solari. Adesso, fate uno più due più tre. Risultato: 45 dollari, quanto costa oggi un barile di petrolio. Spiccioli, rispetto a quanto costava poco più di un anno e mezzo fa. Ma la notizia importante è che il prezzo è crollato perché è caduta la domanda. Siamo diventati più efficienti a consumare l’energia, quindi ne consumiamo meno e quella che consumiamo viene da fonti alternative.
Sembrava una scommessa azzardata, e invece no. Quello che gli esperti stanno raccontando in questi mesi — alcuni a bocca storta, altri con sollievo — è che stiamo assistendo al crepuscolo del petrolio e del carbone. Siamo solo all’inizio e non sarà un processo breve. Anzi, sono in tanti, nei corridoi della conferenza sul clima di Parigi, a dire che arriva troppo tardi. Però, arriva. Dieci anni fa pensavamo che il tramonto del petrolio sarebbe arrivato perché erano finite le riserve e ci saremmo disputati il poco rimasto. Invece, è il contrario: ce n’è troppo. In questo momento, ci sono 100 milioni di barili (l’equivalente di un giorno intero di consumi mondiali) stivati nelle petroliere ormeggiate al largo, perché a terra non c’è più spazio nei depositi. Non sappiamo che farcene.
Una situazione inedita.
Per le sostanze che hanno avviato e alimentato due secoli di rivoluzione industriale è una situazione inedita. Chi racconta meglio la svolta è l’ultimo rapporto della Iea, l’agenzia dell’Ocse, cioè i paesi ricchi, che si occupa di energia. Spiega che c’è una transizione epocale in corso, che si appoggia su due fattori. Si è esaurita la singola spinta alla domanda di energia più esplosiva della storia recente, perché si sta spegnendo la sete della Cina. Ma, contemporaneamente, cambiano anche gli strumenti. Il carbone, il combustibile più inquinante e anche quello che emette più CO2, oggi la prima fonte di elettricità, sta per perdere il suo predominio.
A prima vista, non si direbbe. L’India difende con i denti il suo diritto ad alimentare a carbone il suo sviluppo economico. La Cina sta facendo shopping di miniere nel mondo: ieri Xi Jinping ne ha, praticamente, comprata una in Zimbabwe. Gli ambientalisti di Climate Action Tracker hanno calcolato che, se tutti i progetti di costruzione di nuove centrali a carbone andassero in porto, l’obiettivo di contenere il riscaldamento mondiale a 2 gradi andrebbe, letteralmente, in fumo. Ma, se alziamo gli occhi e guardiamo un po’ più in là, la prospettiva cambia.
È improbabile che tutte quelle centrali vengano costruite davvero. I petrolieri hanno rotto i ponti con i loro colleghi del carbone. Giappone e Usa hanno tolto i sussidi all’esportazione. Banche, assicurazioni, fondi fuggono dagli investimenti in carbone come fosse la peste. Finanche una delle più grandi società minerarie al mondo gli ha girato le spalle. Anche se India e Cina insisteranno nell’energia a basso costo assicurata dal carbone, l’egemonia del combustibile più inquinante, globalmente, è finita. La lea calcola che in 15 anni sarà scavalcato: le centrali a carbone saranno sempre di meno.
Chi ne prenderà il posto? Le rinnovabili.
Già oggi, una nuova centrale su due funziona con il sole, il vento, l’idroelettrico. Nel 2040, assicura la lea, sarà la prima fonte di elettricità: il 50% del totale in Europa, il 30 in Cina e in Giappone, il 25 negli Usa. Ma Re Petrolio? Sapevamo già che il carbone era una vittima designata, ma che ne sarà dell’oro nero? D’ora in avanti, calcola la lea, la domanda mondiale di energia crescerà più o meno l’ 1 per cento l’anno: dal 1990 in poi, andavamo ad una velocità doppia. Merito dei miglioramenti nell’efficienza energetica. E, specificamente per il petrolio, aggiunge la Iea, il boom è finito. Da qui al 2020, sostiene il direttore esecutivo, Fatih Birol, la produzione di greggio aumenterà del 5 per cento. Poi, ci vorranno venti anni, fino al 2040, perché aumenti di un altro 5 per cento o poco più.
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