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“Slow Food significa dare la giusta importanza al piacere legato al cibo, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio. Slow Food afferma la necessità dell’educazione del gusto come migliore difesa contro la cattiva qualità e le frodi e come strada maestra contro l’omologazione dei nostri pasti; opera per la salvaguardia delle cucine locali, delle produzioni tradizionali, delle specie vegetali e animali a rischio di estinzione; sostiene un nuovo modello di agricoltura, meno intensivo e più pulito”. Slow Food ha salvato dall’oblio centinaia di prodotti della tradizione. Fondato un’Università, una casa editrice e inventato il Salone del Gusto di Torino. Sotto il cappello di una onlus battono molti cuori. Che vanno fast.
Slow Food sta in via della Mendicità Istruita a Bra, in provincia di Cuneo. Qui, in una stretta e bella via pedonale colonizzata dagli uffici di Slow Food, si intuisce la sua sorprendente grandiosità. La scenografia di Slow Food, a Bra, è una modesta casa di ringhiera. Carlin Petrini, 57 anni, leader carismatico (ha lasciato lo scorso anno la presidenza italiana del movimento, per occuparsi dell’associazione internazionale), inserito, nel 2004, fra gli “eroi del nostro tempo” dalla rivista Time, ha una stanza degna di un fattore di una bella tenuta delle Langhe. Mentre Roberto Burdese, 38 anni, l’erede di Carlin, da meno di un anno presidente di Slow Food Italia, divide il suo piccolo ufficio con la segretaria. Nei due piani della casa di ringhiera è un dedalo di stanze. Il popolo di Slow Food è una piccola moltitudine di ragazzi attorno ai trent’anni. Identikit: laurea e master in tasca, multilingue, tecnologici, appassionati e devoti. Per una buona metà sono piemontesi.
I braidesi sono ancora la folta maggioranza fra i dirigenti (Roberto Burdese è di Bra, ha cominciato a lavorare in Slow Food , 17 anni fa, come obiettore) e non hanno nessuna intenzione di lasciare il controllo dell’associazione. Anche se, per la prima volta, a dirigere Slow Food Promozione, cassaforte dell’associazione, è stato chiamato un manager esterno. L’altra metà di chi lavora qui viene da mezza Italia e dall’estero. E tenete presente che Bra è fra i luoghi più irraggiungibili d’Italia. 151 i dipendenti, 96 sono a tempo indeterminato. Primo stipendio: 1.149 euro lordi (930 netti) al mese. Salario di un dirigente: 2.450 euro. Salgo le scale della palazzina di ringhiera alle 8,30 del mattino e direi che sono tutti già chini sui loro computer. Penso ai numeri e alle storie di Slow Food (niente di segreto: sono sul loro sito internet): 83 mila soci (30 mila in Italia -tessera da 58 euro all’anno-, 14 mila negli Stati Uniti); 25 milioni di euro di fatturato, una doppia università -fra il triennio e il master- che è costata 24 milioni di euro (e ne costa 6 di gestione annuale), eventi stellari come il Salone del Gusto (lo spazio di uno stand più che minuscolo costava almeno 2500 euro) e Terra Madre (cinquemila contadini o loro rappresentanti atterrati a Torino lo scorso ottobre: un investimento da 6 milioni di euro, pagati dalla Regione Piemonte, dalla città di Torino, dai ministeri dell’Agricoltura e degli Esteri). E ancora: sedi in 7 Paesi (grande successo in Giappone), associati in 122.
E sapete una cosa? Questa multinazionale del “piacere, della biodiversità, dei saperi e dei sapori” è, ancor oggi, un’associazione no profit. Che controlla due srl (la Slow Food Promozione -vera macchina da eventi- e la Slow Food Editore -70 titoli in catalogo e due riviste sofisticate). Non solo: dalla fucina di via della Mendicità Istruita sono nate la Fondazione per la Biodiversità (sede legale a Firenze -il principale partner è la Regione Toscana con circa 100 mila euro l’anno di finanziamenti) e la Fondazione Terra Madre, socio di riferimento la città di Torino, nata per gestire la rete internazionale dei contadini e sorta negli ultimi due anni. Non è finita: a Pollenzo, da un’altra idea in grande di Carlin Petrini, è sorta “l’Agenzia”. È una società per azioni pubblico-privato (presidente Oscar Farinetti, piemontese, ex-proprietario di Unieuro) che ha salvato dalla rovina un’immensa fattoria dei Savoia: l’Agenzia l’ha comprata e, in quattro anni l’ha ristrutturata e trasformata nella regale sede della prima Università di Scienze Gastronomiche, di una Banca del Vino, di un albergo di lusso e di un ristorante stellato dalla guida Michelin. Più o meno, sono stati 19 milioni di euro di investimenti, tirati fuori da 322 sponsor. In prima fila la Regione Piemonte dell’allora governatore forzista Enzo Ghigo, ma 311 soci, il 68% del capitale sociale, sono privati e, in maggioranza, produttori di vino.
- All’inizio fu ArciGola: roba da eretici per chi sognava la rivoluzione.
Petrini e la sua banda braidese hanno avuto ragione: negli anni 80, anni di riflusso e di malinconie per una sinistra nostalgica, questo gruppo di amanti del vino fonda “La libera e benemerita associazione Amici del Barolo”. Nel 1986 cominciano, con spavalderia, a togliere muffe dall’Arci e creano, dalla loro cantina langarola, l’ArciGola. Roba da eretici: parlare di piacere, mentre ancora c’è chi sogna la rivoluzione. “Ma perché non si può essere di sinistra e godersi la vita?”, chiese una volta, mille anni fa, Petrini a una festa dell’Unità a Montalcino di fronte a una “ribollita immangiabile”. Nacque, in quegli anni, la rivista La Gola, dove intellettuali raffinati si misero a discutere di cibo. Grandi proclami, manifesto di fondazione scritto da Folco Portinari, intellettuale e poeta, e serate passate a far baldoria in osteria. Gli eretici di Bra conoscevano già l’arte della comunicazione: un’associazione che si chiamava ArciGola non sarebbe andata oltre le osterie delle Langhe. Non so chi abbia tirato fuori dal cappello il logo Slow Food (sorto nel 1989: congresso fondativo a Parigi. Ovviamente), ma dovrebbero fargli un monumento.
Il 1986, anno di battesimo di ArciGola, non è un anno qualsiasi. A Narzole, una manciata di chilometri da Bra, viene venduto Barbera al metanolo: ucciderà 19 persone. È anche l’anno di Chernobyl. Nel marzo del 1986 Mc Donald’s apre, fra le proteste di un protostorico movimento no-global, il primo vero fast food italiano in Piazza di Spagna a Roma, a un passo dalla scalinata di Trinità dei Monti. Ce n’era a sufficienza perché qualcuno avesse orecchi sensibili al nuovo vangelo di Slow Food. “Slow Food , in realtà, è una rete -spiega Roberto Burdese-. Creiamo contatti, consapevolezze, comunicazione. Siamo solo il nodo centrale di una ragnatela che vuole allacciare tutte le comunità del cibo, dai contadini ai trasformatori, dai commercianti ai cuochi”.
- L’invenzione dei Presidi e del Salone del gusto.
Oggi, tra i simboli di successo di Slow Food ci sono i Presidi. “E pensare che ci avevano presi per matti -ricorda Pettini-. Il mercato, ci spiegavano, vuole la quantità, non c’è spazio per pochi snob del cibo. Bene, si sono sbagliati: avevamo ragione noi”. Chi si ricorda di Cibus, fiera parmigiana dell’agroalimentare? Oggi la vera fiera-mercato del cibo è il Salone del Gusto di Torino, creatura di Carlin. I Presidi sono stati, e sono, un formidabile meccanismo culturale ed economico. Che Slow Food cerca di governare senza vendere un solo salame. “È stata davvero un’operazione culturale -avverte Piero Sardo, 60 anni, presidente della Fondazione per la Biodiversità -. Noi non vendiamo. Diamo una mano a piccole realtà di contadini, facciamo promozione invitandoli ai nostri eventi, cerchiamo sponsor per ogni prodotto, mettiamo a punto disciplinari di produzione severi, ma non rigidi. Ma siamo un’associazione privata: non diamo nessun marchio, non controlliamo, non certifichiamo niente. Nessuno può mettere il simbolo della chiocciola sul suo prodotto”. Verissimo, ma altrettanto vero che i prezzi del fagiolo zolfino sono schizzati del 93% da quando questo poverissimo e buonissimo legume è stato inserito nella lista dei Presidi. E che per comprare molti dei prodotti presenti negli elenchi Slow Food ci vogliono portafogli ben forniti. “I Presidi sono stati la salvezza di molte colture che stavano scomparendo -dice Maria Grazia Mammuccini, amministratrice dell’Arsia, l’agenzia di sviluppo agricolo della Regione Toscana-. È altrettanto vero che vi sono stati rischi di effetti distorsivi sul mercato”. Come dire: il benemerito meccanismo dei Presidi ha anche innescato speculazioni e furbizie di commercianti poco Slow.
Petrini invece non ha confini: sa trovare sponsor, ha una rete di industriali amici (lui, vecchio estremista di sinistra), dialoga fraternamente (e con buoni risultati) con l’ex-ministro dell’agricoltura Alemanno (An) e la Regione Toscana (giunta di sinistra) sulle strategie anti-ogm, si trova d’accordo con l’ex-ministro Tremonti sulla fine delle ideologie liberiste, ottiene il via libera all’Università di Scienze Gastronomiche dall’ex-ministra Moratti e gran parte dei soldi per realizzarla sono della Regione Piemonte, allora governata dalla destra. Mentre l’ex ministro Mussi nicchia sulla piccole facoltà private compresa quella di agroecologia di Slow Food da aprire in Veneto.
Carlin Petrini (che ammette di non saper cucinare, che guida malvolentieri la macchina), due anni fa, contagiato dalla bella amicizia con l’intellettuale indiana Vandana Shiva, e con l’agroecologo cileno Miguel Altieri (cattedra a Berkeley), scrive “Buono, Pulito e Giusto”, fragile Bibbia italiana dell’ultima mutazione di Slow Food. Poi, lo scorso ottobre, a Torino per Terra Madre, arrivano, grazie a una rete capillare e impressionante di sponsor, non solo i contadini, ma tutti gli attori della filiera del cibo. Sono, secondo Slow Food , 1600 comunità del cibo. “Il pianeta Terra sta correndo rischi terribili -spiega Petrini-. E la responsabilità di questa devastazione è attribuita al 70% alla produzione di cibo. Il mercato non salverà questo mondo: è un meccanismo obsoleto, incapace di trovare soluzioni alle crisi ambientali e sociali. Bisogna fare il possibile per invertire questa corsa verso il baratro”. Possono dare una mano a farlo tutti coloro che hanno a che fare con la produzione, il trasporto, la trasformazione, il consumo del cibo.
La salvezza della Terra, sono certi in via della Mendicità Istruita, dipende dalla forza dei contadini (“Sono la metà della popolazione umana”), delle piccole economie di artigiani, pescatori, coltivatori e seed savers. Anche i cuochi devono stare su questa trincea. “Il mondo salvato dai cuochi”, ironizzano, con qualche perfidia invidiosa, a Gambero Rosso, i vecchi fratelli-coltelli di Slow Food . Sullo sfondo rimane una domanda: cos’è Slow Food oggi? Un movimento no-global? Un’associazione campesina planetaria? Un gruppo di nuovi ambientalisti pragmatici e concreti? O qualcos’altro ancora? A fine di quest’anno, a Città del Messico, ci sarà il congresso mondiale di Slow Food . Viene davvero voglia di andare a vedere cosa accadrà.
- Una vita slow?
Infine, prendete fiato e toglietevi un’illusione: non crediate che Slow Food sia slow. Per tenere in piedi tutto questa macchina imponente, bisogna andare molto fast. Troppo, forse. Gli uffici di Bra sono una frenesia quasi adrenalinica. Solo “i vecchi” sembrano ricordarsi che il piacere è la molla fondante di Slow Food e non rinuncerebbero per nulla al mondo all’aperitivo serale da Converso, ma la banda dei ragazzi di via della Mendicità Istruita non ha tempo. Lavorano, con passione, dieci e più ore al giorno. E io sono riuscito a vedere Carlin Petrini (irraggiungibile per quasi un mese) solo perché si era rotto un piede e, almeno per mezza giornata, doveva stare fermo. I 40 minuti di colloquio sono stati una baraonda (altro che intervista): Carlin riusciva a dare ascolto alle mie domande mentre al telefono aveva uno dei migliori cuochi di Francia, e poi c’era il suo capoufficio stampa che gli spiegava i programmi della giornata, una giapponese stava fremendo su una sedia per parlargli e, alla fine, è arrivato anche Roberto Burdese per una microriunione. Poi con il piede rotto, Carlin se ne è partito per Nizza: seminario interno di Slow Food . Insomma, sembra proprio che il mondo non si cambi con la lentezza.
- Slow, chi è pro e chi è contro.
“Ricordo i Giochi del Piacere: ci ritrovavamo, sparsi in mezza Italia, per assaggiare vini e poi ci telefonavamo per stilare una classifica. Erano serate felici, spensierate. Questa atmosfera si è persa in Slow Food . Per paradosso, è scomparso il piacere che era alla base di quella leggendaria ArciGola”. Sandro Pieroni, 48 anni, funzionario pubblico a Castelnuovo Garfagnana, ha antiche nostalgie: fece la tessera dell’ArciGola nel gennaio del 1988. “È come se avesse prevalso una ricerca élitaria rispetto a un gusto popolare: non ci trovavamo più in osteria, ma nei ristoranti più lussuosi. Ad un certo punto si è privilegiato la tecnica di una cucina lontana dalla gente, non si sono più frequentati trattorie ed osterie a misura d’uomo. Ho la sensazione che Slow Food sia diventata un’impresa troppo grande che, giocoforza, deve rispettare le regole del mercato. Il primo Salone del Gusto era bello e spartano, oggi mi appare una colossale fiera commerciale. Slow Food si è allontanata dal territorio”.
“Slow Food mi ha aiutare a ritrovare il gusto che avevo perduto. Pensiamo sempre che il prosciutto sia quella fetta rosina e moscia che ci tagliano al supermercato. Così non è: quel maiale è stato allevato male, ucciso in modo sbagliato, le sue carni sono state lavorate senza passione. Slow Food ha fatto comprendere a tanta gente l’inganno delle produzioni industriali. Ha insegnato di nuovo a capire i veri sapori”. Lucia Zucconi, 46 anni, ha lasciato, cinque anni fa, un lavoro da informatica per fare la cuoca. Vive nelle prime colline del Chianti. E la sua ammirazione per Slow Food (socia della condotta di Scandicci) è bella e sincera. “I ragazzi che crescono nelle città, si sono disabituati al buono. Mangiano schifezze. Assaggiano le fragole e dicono che sanno di caramelle. Slow Food ha fornito strumenti di conoscenza. Hanno messo in rete produttori, consumatori, cuochi e ora anche i contadini del mondo. E ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità”.
- Tutto parte da Bra.
Il cuore di Slow Food batte nella provincia di Cuneo, “la granda”. La sede è a Bra, in via della Mendicità Istruita 14. Nelle sue varie articolazioni e con diversi inquadramenti Slow Food impiega circa 150 persone, mentre il giro di affari complessivo si avvicina ai 25 milioni di euro.
- L’arma dei presidi.
I Presidi sono uno dei simboli del successo di Slow Food, una lente d’ingrandimento su prodotti tradizionali in via d’estinzione che sono così portati all’attenzione del grande pubblico. Tutte storie straordinarie: si va dal leggendario lardo di Colonnata al sale marino artigianale di Cervia, dal fico dottato del Cosentino al violino di capra della Valchiavenna. I Presidi (oggi circa 200), in sei anni di vita, hanno ribaltato il destino di centinaia e centinaia di agricoltori, allevatori, osti e mercanti del cibo. Salvato il fagiolo zolfino come il peperone corno di bue di Carmagnola, le pesche tardive di Leonforte come l’aglio di Resia. Ogni prodotto è una storia a sé: a Slow Food arrivano segnalazioni da parte dei fiduciari delle condotte, di associazioni agricole o di amministrazioni pubbliche. La decisione finale viene presa a Bra. Si cercano sponsor per sostenere un Presidio e pagarne la promozione (soprattutto ospitando i produttori per due anni al Salone del Gusto di Torino) e la stesura di un disciplinare di produzione. In genere è un contratto valido almeno due anni. “Ma è un fenomeno che si sta esaurendo -dice Sardo-: di Presidi ne verranno creati un’altra decina. Non di più. Poi le porte si chiuderanno”.
- L’università del cibo.
Studiare all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo costa 19 mila euro l’anno. “Roba da benestanti – ammette Vittorio Manganelli, direttore dell’Università-. È un punto debole: abbiamo borse di studio solo per 200 mila euro”. La retta di quattro ragazzi kenyani, per esempio, è pagata interamente da queste borse. Gli studenti (quest’anno usciranno i primi laureati del corso triennale inaugurato nell’ottobre del 2004) sono attualmente circa 180. Gli studenti avranno una casa, un computer, i pranzi e due stage annuali in Italia e all’estero. Dopo la prima laurea, si può continuare a studiare a Colorno, in provincia di Parma, per il master (21 mila euro di retta). I professori sono ben pagati: almeno 4 mila dollari per una docente che viene dalla California per dieci giorni a Pollenzo. Vale la pena studiare “scienze gastronomiche”? L’idea di Carlin Petrini e di chi ha progettato l’Università (rettore è Alberto Capatti, storico dell’alimentazione) è di preparare dei futuri “gastronomi”, degli “intellettuali del cibo”, ottimi comunicatori e grandi organizzatori. “Vorrei vedere i ragazzi che escono di qui andare a dirigere consorzi, a lavorare nei ministeri o nelle organizzazioni internazionali: lì c’è bisogno di gente che sappia di cibo e che abbia capacità di visioni -dice Vittorio Manganelli-. Sarei deluso se, invece, finissero a fare le pubbliche relazioni per un’industria alimentare”.
- Cibi dei poveri ricchi.
Prezzi da capogiro per i prodotti che riescono ad entrare nell’universo Slow Food. Chi può permettersi di comprare i fagioli zolfini o di mangiare in un’osteria benedetta dai critici dell’associazione? “Mi arrabbio -risponde Piero Sardo, presidente della Fondazione per la Biodiversità -. Nessuno di noi pasteggia tutti i giorni a zolfini. Bisogna fare delle scelte: quanto spende una famiglia italiana in telefonia? Quanti cellulari possiede ognuno di noi? Negli anni ’70, il 32% del bilancio di una famiglia era riservato al cibo. Oggi questa percentuale si è dimezzata. Se si sceglie di spendere i propri soldi nella bolletta telefonica, si mangia male. Basterebbe che la spesa alimentare risalisse di qualche punto percentuale per poter parlare di qualità del cibo”.
- Il mais zapatista.
No, zapatisti e Slow Food non sono fatti per intendersi. Slow Food chiedeva una rappresentanza di produttori di mais e cercava di convincere le comunità zapatiste a produrre anche per il mercato. “Non hanno capito nulla del Chiapas -ricorda un cooperante italiano-, avevano fretta e non hanno compreso che non esiste un’idea di rappresentanza fra gli zapatisti, che non poteva essere accettata una discriminazione fra i contadini, che il mais viene prodotto solo per autoconsumo”. “È vero -riconosce Piero Sardo-, abbiamo sbagliato, abbiamo avuto fretta. Storia finita male. Non ne facciamo un dramma. Siamo consapevoli che l’idea di presidio è escludente: chi non riesce a garantire la qualità del prodotto ne è escluso. Ma in Guatemala il lavoro con i produttori di caffè ha dato i suoi frutti: produrre chicchi di qualità ha innescato un meccanismo virtuoso che ha portato benefici a tutta una regione”.
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