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La rivoluzione si chiama shale gas e tight oil. E si scontra, inutile nasconderlo, con un’Europa impreparata, indecisa, comunque in ritardo. L’ultima celebrazione della nuova frontiera energetica mondiale si è tenuta ieri mattina nei saloni romani dell’università Luiss.
Il Canada, come l’America, sta risolvendo, almeno per i prossimi vent’anni, i suoi problemi energetici. L’America lo ha già praticamente fatto: grazie alla tecnica della fratturazione idraulica delle rocce si è trasformata da paese importatore di petrolio e gas a esportatore netto, con una prima armata di navi metanifere che si appresta a lasciare i porti, dopo aver fatto il pieno di metano liquefatto da impianti velocemente riconvertiti da rigassificatori (costruiti quando la fame di energia cresceva a la produzione interna calava) in liquefattori.
Lo stesso sta facendo il Canada, che nel frattempo perfeziona, rendendola più efficiente anche nei costi e quindi nella convenienza economica, la pratica della raffinazione di petrolio dalle sue sabbie bituminose. L’Europa? Potenzialità ingenti, specie nello shale gas. Ma in uno scenario sicuramente più ostico: giacimenti più profondi e territori più popolati. Dunque una grande cautela (comunque comprensibile) sul fronte ambientale. Con linee e diagnosi comuni che l’Unione europea aveva promesso ma con uno scenario già noto:la dilazione, il rinvio, i tempi comunque lunghissimi.
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