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Il tema sta tornando purtroppo di grande attualità e occorre che, senza pregiudizi ed ipocrisie, noi occidentali si prenda coscienza di quello che costa mantenere il nostro stile di vita. Certo a noi sembra di essere a posto. Ognuno di noi ritiene che, pagato il prezzo di acquisto della propria automobile, le tasse varie previste e poi la benzina, è “libero di viaggiare”. Sembra che non ci siano altri prezzi da pagare, vero? Invece non è così. Assieme alla benzina o al gasolio, facciamo anche un pieno di sangue per il nostro serbatoio. Per comprendere il concetto, basta conoscere, ad esempio, la storia delle operazioni “Nima” (aurora in iraniano), e Kerbala avvenute fra il 1982 ed il 1987, alle quali l’Italia ha partecipato in qualche modo. Vediamo il contesto storico.
Nel 1979 ci fu la rivoluzione khomeinista in Iran, che depose lo Shah Reza Pahalevi e rese possibile, per la prima volta nella storia moderna, l’applicazione della Sharia, la legge di Dio, sulla Terra. Tutti gli ufficiali dell’esercito, dell’aviazione e della marina iraniana che non riuscirono a lasciare il Paese, furono passati per le armi, perché in gran parte erano stati addestrati negli USA, il “grande Satana”. Nel 1980 il dittatore irakeno Saddam Hussein, illudendosi di ottenere una facile vittoria, attaccò l’Iran per conquistare alcune terre di confine, lungo lo Shat El Arab. Le truppe iraniane, malgrado le epurazioni e lo sfascio seguito alla rivoluzione, ressero all’urto, poi si riorganizzarono e contrattaccarono. Khomeini ne approfittò per rafforzare il suo consenso fra il popolo e per lanciare la Jihad, la guerra santa, dichiarando apertamente di volere abbattere, oltre che il baathista Saddam Hussein, anche le “corrotte monarchie sunnite” di tutta la penisola arabica e anche di liberare Gerusalemme dall’occupazione sionista (ovvero sterminare gli israeliani). A questo punto il mondo intero ebbe paura. All’epoca c’era la guerra fredda fra Occidente e Unione Sovietica. Ad attaccare Israele, notoriamente dotato di armi nucleari, si rischiava la terza guerra mondiale. Poi la conquista da parte iraniana della penisola arabica e la chiusura dello stretto di Hormuz, avrebbero portato al l’appropriazione o al controllo diretto del 60% del petrolio mondiale da parte di un fanatico islamico.
Foto 1, 2, 3 – Varie mine antipersonale italiane, a basso contenuto di metalli per rendere più difficile l’individuazione e lo sminamento, usate nella guerra Iran-Irak.
All’ONU si deliberavano risoluzioni in serie apparentemente neutrali, dove si mettevano i due contendenti sullo stesso piano, creando un embargo per la vendita di armi. In realtà ci fu una mobilitazione generale a favore di Saddam Hussein, il quale iniziava a trovarsi in difficoltà sotto le “spallate” degli iraniani. Così l’unione sovietica incrementò le forniture di carri armati T64 e T72, lanciarazzi e di armi leggere per la fanteria. I francesi mandarono i loro migliori consiglieri militari e vendettero all’Iraq un centinaio di cacciabombardieri Mirage F1, missili Exocet, elicotteri Gazelle e semoventi antiaerei. Gli inglesi fornirono cannoni ed esplosivi. Il Canada consentì all’ing. Bull, ucciso poi misteriosamente nel 1990, di fornire l’assistenza all’Iraq per la costruzione di un supercannone. L’Occidente fornì anche dei precursori per la fabbricazione di gas venefici e la tecnologia necessaria all’uso militare. Gli USA diedero una montagna di soldi, assieme al Kuwait e agli altri stati della penisola arabica. In più fornirono all’Iraq preziose informazioni raccolte dai satelliti. Israele fornì intelligence sul campo e operazioni di sabotaggio. E l’Italia? All’epoca eravamo uno dei migliori produttori al mondo di mine antiuomo ed anticarro e quello fu il nostro contributo (foto 1, 2 e 3). Gli ordigni, forniti in gran quantità, furono prodotti dalla Misar e dalla Valsella, due aziende in provincia di Brescia che negli anni ’90 dovettero poi riconvertire la loro produzione proprio a causa del “successo” nel loro impiego in quella guerra. Grazie agli aiuti internazionali, gli iracheni si rafforzarono e allora gli iraniani cambiarono strategia concentrando tutti i loro sforzi contro le fortificazioni a nord di Bassora. Se fossero riusciti ad interrompere l’asse Bagdad – Bassora, avrebbero tagliato in due l’Iraq e sarebbero potuti dilagare con le loro colonne corazzate contro Israele attraverso la Giordania e contro l’Arabia Saudita attraverso il Kuwait. La situazione si faceva davvero seria.
Quella che avrebbe dovuto essere la spallata decisiva, che avrebbe aperto la strada verso gli obiettivi finali, fu chiamata dagli iraniani “Nima” (aurora), perché avrebbe rappresentato l’aurora di una nuova era per tutto il mondo. Furono ammassati lungo il tratto dello Shat El Arab più adatto allo sfondamento, perché facilmente guadabile, più di 500.000 fra soldati, pasdaran, truppe irregolari e Basiji, i volontari disposti all’estremo sacrificio, i suicidi. Questi ultimi erano gruppi di 300/400 persone, a volte tutti di uno stesso quartiere, spesso bambini di 12 anni, reclutati nelle scuole, e che andavano a morire con appesa al collo una chiave di plastica, la chiave che gli avrebbe aperto la porta del paradiso dei martiri. Assieme a loro gli uomini troppo vecchi per fare i militari. Vecchi e Bambini avevano sulla fronte la fascia rossa del martirio (foto 4, 5).
Dall’altra parte i consiglieri francesi insegnarono agli iracheni come predisporre “un’area di annientamento”, una tecnica inventata da Erich von Falkenhayn, capo di stato maggiore tedesco nella prima guerra mondiale, allo scopo di dissanguare, mediante l’uso dell’artiglieria, l’esercito nemico. Tecnica terribile ed efficace che causò la morte di quasi un milione di soldati sulle colline della Somme. In pratica si trattava di creare un’area profonda circa 4 km e lunga circa 12 km, delimitata da profondi campi minati, dove far concentrare il nemico per annientarlo poi con cannoni, esplosivi e missili. Gli iraniani attaccarono, come previsto, attraversando un braccio dello Shat El Arab e travolsero rapidamente le resistenze irachene sull’altra sponda. Si trattava in realtà di una ritirata programmata. Il velo di truppe, armate solo con mitragliatrici, dopo una breve resistenza di facciata, indietreggiarono defilandosi attraverso dei passaggi sinuosi predisposti nei campi minati profondi fino ad un km. Gli iraniani avanzarono baldanzosi per 4 km fino a che trovarono la barriera dei campi minati che delineavano l’area di annientamento. Pensando ancora di essere vittoriosi, per rafforzare la testa di ponte più di 300.000 soldati iraniani attraversarono lo Shat El Arab in modo da fortificare la sponda irachena appena occupata. Poi, allo scopo di aprirsi la strada verso gli obiettivi strategici, per aprire varchi nei campi minati, mandarono avanti i gruppi di Basiji. Immaginate centinaia e centinaia di bambini e vecchi mandati a saltare sulle mine sotto il fuoco delle mitragliatrici! Ma i campi minati erano profondissimi e le mine italiane efficacissime. Intanto centinaia di cannoni, elicotteri ed aerei facevano a pezzi gli iraniani bloccati nell’area di annientamento. In alcuni punti i Basiji, sacrificandosi in massa, riuscirono quasi ad oltrepassare i campi minati, allora gli iracheni usarono i gas venefici eliminando ogni possibilità di sfondamento. I soldati iraniani avevano con se maschere antigas, ma nel caldo soffocante delle paludi del confine, la gomma e la plastica delle maschere si fondevano con la pelle della faccia, soffocando comunque chi indossava la protezione. Dopo alcuni giorni di massacro gli iraniani tentarono la ritirata, ma gli iracheni avevano piazzato due grandi generatori a monte e a valle dell’area di annientamento, così chi entrava in acqua moriva folgorato. Non si facevano prigionieri (foto 6, 7, 8).
Gli iraniani tentarono altri poderosi attacchi, altre operazioni chiamate Kerbala, ma furono sempre respinti grazie alle nostre tecniche di guerra ed alle nostre armi moderne, che fornimmo in abbondanza agli iracheni. Poi la guerra finì con un numero ufficiale, certamente errato per difetto, di un milione e mezzo di morti. Una fontana da cui sgorga vernice rossa, “La fontana del sangue” fu eretta a Teheran in ricordo del sacrificio dei martiri. (foto 11) Ancora oggi i Basiji sono presenti nelle forze armate iraniane, sempre pronti al martirio. Hanno anche un ruolo in città come difensori dell’ortodossia islamica, inquadrati dai Pasdaran.
Oggi la situazione strategica nell’area è molto, troppo simile a quella degli anni ’80. Di nuovo gli iraniani minacciano Israele e dicono di voler chiudere lo stretto di Hormuz. di nuovo l’Occidente si prepara a difendere i propri interessi. Oggi il petrolioviene anche da altre aree del globo e solo meno del 30% passa dal Golfo Persico, ma noi comunque non ne possiamo fare a meno per troppo tempo.
Quando mettiamo della benzina nel nostro serbatoio dovremmo essere coscienti di come abbiamo, forse anche legittimamente, difeso il nostro tenore di vita. E di come siamo ancora disposti a difenderlo: se scoppia di nuovo la guerra contro l’Iran, le nostre truppe in Libano verranno usate certamente in chiave anti Hezbollah.
Noi occidentali facciamo sempre così: facciamo finta di non sapere, di non capire e comunque ci consideriamo sempre nel giusto, sempre dalla parte dei buoni. Certo nella prima guerra mondiale per il petrolio i bambini a morire in quel modo orribile ce li ha mandati Khomeini, non noi. Giustamente noi difendiamo i nostri interessi. Però comunque nel nostro serbatoio entra sempre un po’ di sangue assieme alla benzina. Non dovremmo mai dimenticarcene, per assumere le nostre responsabilità e per valutare se non è il caso di rivedere il nostro stile di vita.
17 marzo 2012 alle 18:13
L’analisi è istruttiva e interessante, ma mi domando se il signor Rossi, che usa l’utilitaria per lavoro e famiglia, una volta pensato a quanto c’è dietro il litro di benzina pagato ormai come oro, come possa cambiare il sistema: è su questo punto che dovrebbe continuare l’analisi dell’autore. Se andiamo a cambiare l’auto ci offrono motori a benzina e gasolio. Se chiediamo un’ alimentazione mista, ibrida, elettrica, tutto diventa più costoso e poco disponibile. Secondo me, la filosofia del cambiamento parte dalla produzione e dagli incentivi che i governi potranno dare al settore.
18 marzo 2012 alle 10:29
Lei ha ragione Alberto. Il lavoro di ricerca che ho fatto doveva servire solo ad offrire strumenti per aumentare la consapevolezza del lettore. Il sistema non cambia velocemente, salvo che per ragioni drammatiche. Quindi nel frattempo possiamo cambiare almeno un poco le nostre abitudini. Personalmente, quando ho compreso che nel serbatoio dell’auto mettevo sangue assieme alla benzina, ho cambiato auto. Facevo molta strada e sono passato, nel 2006, da una SAAB Aero benzina da 250 cv, a una Toyota Prius ibrida. Poi ho implementato il più possibile il telelavoro e oggi, grazie a Skype, ho dimezzato i km che faccio ogni anno. Oggi la mia Prius ha viaggiato “solo” 260.000 km in 6 anni. Comunque alla fine oggi consumo meno del 30% della benzina che consumavo nel 2005. Mi sposto il meno possibile, spesso faccio car pooling e ho abituato la famiglia a consumare meno.
Adesso la gente viaggia meno perché la benzina costa molto e c’è la crisi. Ma se piano, piano impariamo a considerare il petrolio come un bene prezioso, allora forse qualche cosa può cambiare. La via secondo me è la decrescita, è consumare meno e meglio. Ma questo è un discorso lungo.
18 marzo 2012 alle 18:17
Mi trova d’accordo. Personalmente, quando posso, mi reco al lavoro in bicicletta: questo consente, oltre che a mantenersi in forma, un approccio diverso con la realtà, e non solo sul fronte dei consumi, ma anche come visione più nitida della qualità della vita. Mi rendo conto che fino ad oggi è mancata la cultura per addivenire ad un reale mutamento dello stile di vita, con minori consumi e più qualità, ma d’altra parte, le politiche energetiche e gli obiettivi sino ad ora perseguiti a livello nazionale e internazionale non sono proprio eccellenti.
E’ vero che spesso l’autoveicolo è indispensabile, ma sono convinto che molte persone potrebbero trovare soluzioni alternative, almeno qualche volta nell’arco della settimana: basta convincersi che l’attuale sistema non sarà sostenibile ancora a lungo.
Cordiali saluti.
19 marzo 2012 alle 08:11
In effetti, a parte il fattore etico, il sistema non durerà a lungo. Mi sono fatto un paio d’anni sulle piattaforme offshore in Libia, conosco un poco il settore, la situazione è ben sintetizzata da Ugo Bardi http://ugobardi.blogspot.it/
Un cordiale saluto
12 maggio 2012 alle 10:44
Grazie per questo lavoro accurato.
è sempre meglio conoscere i dettagli degli avvenimenti (quali fonti hai usato?), anche se per quanto mi riguarda, sono abbastanza rafforzato nelle mie convinzioni anche senza queste informazioni e, se uno non è ben disposto, è probabile che snobberà con un “vai a sapere”, cercando di sopravvivere con la sempre valida regola dello struzzo.