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La biodiversità rappresenta la varietà di forme di vita all’interno di qualsiasi sistema. Per biodiversità si intende l’insieme di tutte le forme, animali o vegetali, geneticamente dissimili presenti sulla terra e degli ecosistemi ad essi correlati. Quindi biodiversità implica tutta la variabilità genetica ed ecosistemica. Un’elevata biodiversità è un marchio di un ecosistema sano e resistente ad anche un leggero stress (antropico). Nel settore agricolo già applicando monocolture che grazie alla lavorazione meccanica del terreno con aratri si viene a distruggere un ecosistema di piante. Il risultato comporta un aumento esponenziale nel suolo del fenomeno dell’erosione, con conseguenza dilavamento delle sostanze nutritive. Come sappiamo in questo modo il terreno per continuare ad essere fertile necessita di elevati quantitativi di fertilizzante a seconda della coltura e del grado di impoverimento del terreno. Per non parlare dell’effetto della diminuzione dello strato di humus in grado di assorbire CO2. Ma esiste una soluzione piuttosto semplice …
Una nuova ricerca realizzata dalla Louisiana State University dimostra che le strategie di coltivazione che comprendono una vasta gamma di colture potrebbero potrebbero ridurre il dilavamento dell’azoto dal suolo. Lo studio sottolinea che, qualora la biodiversità delle colture è alto, meno azoto si può trovare disciolto negli immediati corsi d’acqua limitrofi che progressivamente si dirigono verso torrenti, fiumi e poi mare. L’azoto dei fertilizzanti agricoli (prodotti a partire da combustibili fossili naturalmente), si snoda via via sempre più in modo crescente da molecole semplici fino a formare nitrati e nitriti disciolti nell’acqua.
L’aumento di queste sostanze azotate porta alla facile crescita di alghe, che utilizza il prezioso ossigeno disponibile in acqua, danneggiando seriamente l’habitat acquatico. Il numero di pesci morti in acque marine è raddoppiata ogni 10 anni dal 1960, il che corrisponde perfettamente con l’aumento di queste tecnologie agricole industrializzate. Così le moderne aziende agricole coltivando un minor numero di varietà vegetali realizzano una minore biodiversità che può influire negativamente sui bacini idrici circostanti.
I risultati dello studio hanno mostrano inoltre che la dimensione media per le aziende agricole occidentali è passata tendenzialmente da 40 ettari nel 1900 a 140 ettari nel 2002. Senza considerare che lo studio non ha mancato di ricordare che la coltivazione del mais per l’etanolo mediante pratiche di gestione, come l’applicazione di fertilizzanti industriali commerciali, la coltivazione meccanica, e il drenaggio intensivo è il più importante motore di tale aumento di inquinamento da azoto. “Questi risultati sono importanti, perché mettono in evidenza la necessità di affrontare l’utilizzo intensivo del suolo, al fine di ridurre sia il ribasso del tenore di ossigeno e i suoi e i suoi effetti negativi, sia il ripristino di sostanze nutritive delle zone umide costiere”, ha affermato Turner che ha condotto la ricerca. “Le nostre pratiche agricole hanno sempre influito sulla qualità delle acque, ma nel secolo scorso la meccanizzazione dell’agricoltura e l’uso dei più potenti fertilizzanti ha causato pericolose conseguenze, come l’aumento del tasso di perdita dell’azoto dai terreni”.
La buona notizia è che l’impatto dell’inquinamento da azoto causato da pratiche agricole industrializzate potrebbe essere reversibile, soprattutto se partissero degli incentivi per gli agricoltori al fine di aumentare la biodiversità, riducendo la dimensione delle proprie coltivazioni, l’aumento delle zone tampone, e di integrare più nativo paesaggi tra i campi.
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